Lettera di primavera

Mia amata,

Oggi è il primo giorno di primavera e in questa stagione ogni giorno mi riporta l’eco della tua voce e l’immagine del tuo volto in cui amo perdermi. Ci sono istanti in cui vorrei essere con te lassù, al di là dello spesso strato di cemento che ci sovrasta, sotto le vere stelle di un vero cielo, a carezzare con la schiena una terra morbida e viva, odorosa di fiori. Insieme, a guardare il sole tramontare (il tramonto… che emozione vederlo nei vecchi film, nei documenti filmati degli esploratori, con le sue nubi stratificate dai mille colori) stretti nel nostro primo abbraccio. Cederei il resto dei miei giorni per vivere quell’istante, i sensi aperti ai tanti stimoli della natura, chissà quanti, chissà quanto intensi, forse troppi e stordenti. Ma le sensazioni scatenate da tali emozioni non reggerebbero il confronto con l’intensità di quelle che tu, vestita soltanto della tua fulgida presenza, provocheresti in me. Se tutto ciò fosse possibile…

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L’uomo sospeso

Suggestioni da “Reflecting Pool” di Bill Viola

Sono al centro di una sfera di luce che mi esclude. Illumina gli agitati contorni, i riflessi intermittenti, le interferenze. Costruisce un alone di silenzio, un bagliore calmante. Non interagisco con niente, sto sospeso, escluso dall’attenzione. Anzi, pian piano scompaio, mi scompongo nell’acqua, nella luce, nei riflessi che si contemplano nella sfera. Read More

Il fiume

Ho scelto una pietra comoda, corredata di muschio morbido e asciutto.E’ un buon punto di osservazione, da qui si vede un lungo tratto del fiume, a nord come a sud lo sguardo spazia per chilometri. Una maestosa quercia mi fa ombra e attenua il caldo afoso di settembre.

Ho da mangiare. Da bere. Ho una canna per pescare e un coltello per raccogliere erbe, cicorie, cardi selvatici. Ho un binocolo per vedere i flutti e quel che trasportano. Ma soprattutto ho tempo da vendere.

Prima o poi passerà qualcuno, e io lo aspetto.

 

Il paese perfetto

È un paese piccolo, ma perfetto. Sinio ha poche case, arrampicato sulla collina che incombe sulla ferita della valle Talloria: un solco lungo e stretto, verde e ordinato, scavato tra i vigneti. Ieri i vigneti erano rosso sangue, e di un giallo caldo e antico, spruzzato sulle foglie avvizzite dei graspi come da una pioggia indecisa. E il verde era brunito, severo, un po’ anziano, seduto sul prato che sembra morire.

20151101_154037Nessuno per strada, qualche macchina sul piazzale. Da una Volvo scende un signore che entra nel circolo Arci: un po’ piola, un po’ bar, un po’ centro anziani. Dentro, due tavoli e altrettanti mazzi di carte in gioco, qualche cartello, nessun quadro e poche foto di donne in costume o in posa con figli e nipoti: “Masche nel mondo”, è il titolo della raccolta, le streghe-maghe di Sinio che si celano dietro ogni donna nata qui, così lontano dal mondo e così vicino al cuore del mondo. Read More

Rue Watt, #Parigi

Peccato che Boris Vian non sia riuscito a piantare i pomodori in rue Watt. Forse qualcuno l’avrebbe dovuto fare per lui, per il poeta delle notti di Saint Germain des Prés, ucciso da una sincope e da un brutto film nel 1959, a soli 39 anni. Il film era tratto dal suo “Sputerò sulle vostre tombe”, il primo libro scritto come una crime story americana, sotto pseudonimo, tredici anni prima e Boris lo trovò orribile. Troppo per il suo cuore malato. Due piantine alla memoria, senza lapidi o discorsi, a produrre frutti per chi li vuole raccogliere. Io l’avrei fatto, per lui, in rue Watt. Read More

Piazza Vittorio

Mi risvegliai con la bocca amara. Infilai un paio di scarpe e il cappotto. Dalla collina, gli alvei stradali vomitavano auto nel lungopo, intasato di scatolette ripiene di uomini e donne sole. I loro cattivi pensieri rendevano l’aria pesante, nervosa, ipertesa; gli affluvi odorosi di fango esalavano dal Po in densi nuvoloni giallastri, offuscando i lampioni.
Nel viale scortato da ippocastani, pochi passeri volavano frettolosi sul tappeto di foglie marce. Era una domenica come tante. Read More

Duebàr

Il bar è un’estensione calda della strada. Un posto dove scaldarsi d’inverno, dopo un affrettato camminare nell’aria basita dal gelo, dove insieme al caldo dei termosifoni e della macchina del caffè a volte si trova un’umanità accogliente, un’atmosfera complice, un barista aperto come un libro d’avventure.

La mia camminata verso l’ufficio la mattina è un bel zigzagare tra le vie squadrate di Vanchiglia e del Centro. Da circa un anno, da quando all’aria rarefatta di Borgo Po ho preferito la vivace e popolana Vanchiglia – insomma da quando vivo nella mia nuova casa al terzo piano con balconi ampi e fioriti anche se con vista sui balconi altrui e non sulla bohemien via Ornato sia pur dietro grate al piano terra che facevano un po’ prigione – per recarmi al lavoro attraverso questo grappolo di isolati, fermandomi talvolta per un caffè.

Il primo bar che preferisco è una grande locale affacciato sul mercato di piazza Santa Giulia. È un bar popolare, pieno di pensionati che spendono il tempo giocando a carte, parlando di politica, di sport, di tv. Il caffè sa un po’ di bruciato, ma la signorina che lo serve ha un bel sorriso e accoglie tutti quelli che entrano come se fossero parenti in visita. La signora con il bambino in braccio le fa dimenticare gli astanti al banco, il vecchio immigrato dal sud la stuzzica con battute scipite; la scena è dominata da una selva di ritratti di Marylin, il cui volto luminoso spunta dal vassoio appoggiato sul microonde, nel grande ritratto appeso sui tavolini, nell’ovale di una finestra sul bancone, nella piccola tela stampata in serigrafia vicino alla porta del bagno, mentre, sulla parete a fianco dell’ingresso, il volto giovane e rigoglioso di Ernesto Guevara sorride porgendo le labbra a un sigaro cubano, ancora nel pieno della giovinezza e virginale nella sua fede nella vittoria. Una foto che non posso non guardare ogni volta che entro e che suscita in me quel rimpianto della giovinezza che non provo e non ho mai provato nei confronti di me stesso. Per me quella foto è l’essenza della vita al massimo della potenza, un insieme di forza vitale e innocenza: è il sole dell’intelligenza che risplende attraverso gli occhi di un uomo. É “un bel posto”, come recita pretenziosamente, ma a ragion veduta, l’insegna.

Nel bar c’è un cagnolino che si avvicina scodinzolando e bruca le briciole lasciate cadere dai croissant degli avventori. C’è una mamma che prepara i pasti e una figlia che li propina ai clienti. Ci sono i pensionati che scendono in strada per incontrarsi, i venditori di verdure che perdono il conto dei caffè sorbiti per scaldarsi, i contadini che vendono uova e vino tenuti al caldo dentro ai furgoni, e cercano un punch rosso fuoco. Ci sono gli annegati nel grigioverde – un miscuglio infame che uccide i pensieri fin dall’alba – che puzzano di tabacco e fumo di cherosene, gli occhi nascosti dietro fessure di palpebre. Fuori, le bancarelle dei salumi voltano la schiena ai tavolini ammassati sul marciapiede. È un bar di retrovia: davanti ai carretti frigo madame fresche di petnoira e forme di gorgonzola dentro alle vetrine, con tome d’alpeggio e caciocavalli odorosi, ricotte e pecorini sardi; dietro, pietre di Luserna appiccicose di verdure marcite e il via vai veloce di gente indaffarata.

Ma a volte non passo di là, oppure vado diritto per la mia strada e il caffè non è un desiderio assillante, almeno non ancora. Allora proseguo per l’animata via Santa Giulia, piego in largo Montebello verso la Mole e passo davanti al Museo del Cinema, al Teatro Scribe alla cui finestre morte si affacciano attori che esistono ormai solo in celluloide. Poi prendo via Verdi, passo davanti alla Rai e all’Università, mi affaccio nel cortile cadente della Cavallerizza, leggo gli striscioni dei residenti sfrattati e fiancheggio il Teatro Regio, dove talvolta escono dalla grande porta del retropalco colonne con capitelli dorici di polistirolo e troni di cartapesta sollevati da litigiosi operai in tuta blu.

Qui c’è il secondo caffè preferito, dove forse alla sera stazionano vecchie signore coperte di animali morti, allenate all’ipocrisia, che vivono nella vetrina delle vite fotocopia spalmate sulle giornate vissute nei silenzi dei piani nobili, reduci dal rito dell’opera. Al mattino, invece, le strie lasciate dai profumi costosi sono fuggite, o rubate dalle correnti aperte per cambiare l’aria. Cedono il passo a un’aria nuova, restituita lavata e stirata dalla notte che si arrende al giorno. E così, a volte mi piace entrare in quest’aura asciutta e candida, la cui forma è segnata dalle lucide vetrine colme di pasticceria, dal bancone stretto, dai pochi tavolini che stazionano sotto la scala. Oltre il bancone c’è un barista elegante e sobrio, che sorride quanto basta, intento ad asciugare le tazze e i bicchieri a calice, che accoglie con un cenno il mio sguardo invitandomi a ordinare. L’aria è colma di musica, lirica e sinfonica. Si respira una calma serena, le voci sono sottili, accentate dai sorrisi e dall’ironia di una sobria battuta. È un posto reale, e non per il nome che porta: vi si trova una forza implicita intenta a sedare i turbamenti, le ansie. Una bolla isolante dal frastuono del mondo, dove il mondo se vuole ritrova se stesso. Come in via Giulia di Barolo, in via Verdi c’è una bolla di autenticità che ha vestiti diversi ma uno stesso fluido che la riempie.

Basta spostarsi a un bar vicino per respirare un’altra aria. Siamo serviti da giovani con il viso piatto e la battuta facile. Sono parole inutili per riempire l’imbarazzo, un’amicalità di soccorso per sconfiggere la ricchezza del vuoto. È un pieno a perdere simile a quello che trasuda dalle tv accese che cancellano i pensieri delle persone sole. Una giovialità aggressiva e senza artigli, che gratta con l’enfasi del gatto stupito davanti a un vetro umido di gocce. Un’apertura impaziente e arrogante, che pretende complicità linguistica, conformità, trasmessa con lo sguardo spento e il sorriso storto dall’avidità.

I bar raccolgono persone che entrano per il tempo di una consumazione. A volte lasciano il resto, a volte lasciano storie. A volte le storie non si fermano, scivolano sull’indifferenza del nulla. A volte invece si fermano. Io entro nei bar a cercare storie.

L’ombrello

L’ombrello è un oggetto odioso. E’ infedele, perché si lascia portar via del primo che passa. E’ debole e traditore, perché si rompe facilmente e quando meno te l’aspetti. E’ noioso e invadente: non sai mai dove metterlo, sta sempre tra le mani se lo porti con te e se non lo porti, quasi sempre, piove. Gli ultimi ombrelli li ho comprati a Roma. Nei miei pochi, recenti viaggi nella capitale ho sempre beneficiato di una pioggia moderata ma insistente. A Roma, quando le nuvole scaricano il loro liquido contenuto, spuntano ad ogni angolo frotte di immigrati orientali carichi di questi detestabili arnesi, offerti alla modica cifra di cinque euro l’uno. Sono persone sorridenti e professionali, felici dell’inattesa fortuna che, pardon, gli è piovuta sulla testa. Questi parapioggia – termine a suo modo onomatopeico ormai fuori uso – sono, a prima vista, resistenti, con un meccanismo di apertura automatica efficiente, robusti quanto basta. Ottimo rapporto qualità prezzo, diresti. Poi, col passare del tempo, alle prese con un potente acquazzone si fanno trasparenti, permeabili, praticamente inutili. Ciò avviene, comunque, quando incappi in ombrelli fedeli, anche se poco professionali, che restano con te a lungo. Se invece ti imbatti in uno facile al passar di mano, non puoi lasciarlo da solo un minuto. Al primo portaombrelli spunta la sua vena di scambista e ti abbandona per un altro, al quale non par vero di trovare un sostituto valido al vecchio arnese ormai esausto con il quale aveva diviso centinaia di giorni grigi e che ora, come fosse un’amante sfiorita, abbandona al suo destino. Una fedeltà della quale non ho mai provato il gusto. Ho avuto ombrelli durati il tempo necessario a percorrere duecento metri, tra il solito venditore orientale e la prima pizzeria. E quindi, perché spendere fior di quattrini per oggetti curati ed eleganti, se poi questi alla prima occasione possono eclissarsi? Un bel gesto che al portar l’ombrello rimanda, è quello che si meritano. Quattro ombrelli all’ombrello, e non dico di più.

(Pubblicato da “Il Giudizio Universale” n° 32, aprile 2008)

http://www.scribd.com/doc/35435269/ombrello-giudizio